Non mi piacciono le cose lasciate a metà. Sono fatta così, un po’ testarda, un po’ troppo perfezionista, a volte troppo attaccata ai dettagli. Ma la vita può decidere di imporre pause e interruzioni: capita il progetto troppo lungo da non poter essere concluso in un giorno, il cambio stagione che non hai tempo di terminare nel fine settimana… A volte questo è un intralcio, a volte uno sprone. Non si spiegherebbe, altrimenti, la pervicacia dei camminatori di Santiago: gli impegni della vita vanno affrontati un po’ alla volta lasciando, se occorre, del tempo tra una tappa e l’altra. Come quando ci affezioniamo a una serie televisiva e non vediamo l’ora che esca la nuova stagione (ora fremo nell’attesa dei prossimi episodi di Stranger Things, ansiosa di sapere cosa accadrà nell’oscura dimensione del Sottosopra) ma siamo costretti ad aspettare che arrivi il momento giusto.
È così che è successo con il mio ultimo articolo per il Linklab Café: l’argomento cucina per me è così affascinante da non poter essere trattato con superficialità, né dal punto di vista della cultura enogastronomica, né (ahimè, lo ammetto) dal punto di vista della degustazione pratica. Così tanti dettagli mi affascinano che, andando alla ricerca di materiale per l’articolo suddetto, ho trovato talmente tanti spunti curiosi da non poter essere esauriti in un solo post. E quindi riprendo il discorso sugli aspetti culturali del cibo e, in particolare, sull’ardua impresa di tradurre ricette e di scovare ingredienti “introvabili”.
Nell’articolo sulle tazze e mezze tazze raccontavo degli intoppi che avevo avuto nel reperire i corretti ingredienti per il Butterscotch Budino, non avendo noi in Italia le gradazioni lipidiche della panna disponibili per un pubblico anglosassone, né sapendo bene cosa fare per ottenere una tazza di brown sugar. Perché al di là dell’aiuto fornito dai numerosi dizionari specializzati nel linguaggio gastronomico (uno tra tutti l’utilissimo Professione Chef, edito da Zanichelli), tradurre una ricetta non è solo trasporre dei vocaboli, bensì provare con mano propria quello che si sta traducendo; diversamente, si rischia il fallimento della ricetta. Pensiamo solo agli innumerevoli metodi di cottura, dalla bollitura alla scottatura, dalla cottura a vapore a quella a bagnomaria, dalla frittura alla scottatura alla rosolatura. Inseriamo il termine sbagliato nella ricetta tradotta e il piatto rischia di andare… in fumo.
Gli ingredienti, poi, sono fondamentali, com’è logico. Come potrà, quindi, un cuoco italiano sostituire un fromage blanc o un cuoco tedesco rimpiazzare uno stracchino? Qui subentra, appunto, il fattore culturale e non più esclusivamente traduttivo. Del fromage blanc, tanto utilizzato tra il nord della Francia e il Belgio meridionale, ho sentito parlare le prime volte dai miei parenti che vivono a Bruxelles. Li sentivo, incomprensibilmente per me, cantavare le lodi di crostate fatte con un formaggio che si accompagnava tanto bene a frutta o miele per merenda, quanto a una bistecca per pranzo o cena! Ho appreso poi che si tratta di un latticino di antichissima origine (risale al neolitico, pare), che potrebbe essere assimilato a una ricotta ma senza grumi, a uno yogurt ma senza frammentazione in fase di cagliata lattica… insomma, il fromage blanc è fromage blanc! E a voler rimanere tra le ricette francesi, che facciamo se tra gli ingredienti troviamo l’altrettanto famigerata crème fraîche? Viene spesso assimilata a una panna acida, poiché si tratta di una crema di latte densa (più di una panna acida, crème aigre in francese), il cui sapore acidulo è dato dall’aggiunta di colture di lattobacilli e il cui contenuto di grassi può arrivare al 33%. Attenzione, però: è possibile che nella stessa ricetta appaiano contemporaneamente i due tipi di crème!
In connubio tra cibo e traduzione non è poi così insolito. Nel 2017, infatti, si è tenuto presso il Centro Universitario di Bertinoro (FC) un evento promosso dal Dipartimento di Interpretazione e Traduzione dell’Università di Bologna, da Casa Artusi e dal Ceub sulle traduzioni editoriali per il settore gastronomico, dal titolo Writing, Broadcasting and Translating Food. In tale occasione, si è cercato di individuare un parallelismo tra due testi fondamentali per la gastronomia mondiale, The Book of Household Management di Isabella Mary Beeton e La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, per approdare, infine, al fenomeno mediatico di Nigella Lawson.
Anche Giada Riondino, traduttrice del libro di ricette vegetariane di Martha Stewart Meatless, che in italiano diventa proprio Vegetariana, ha dovuto superare plurimi ostacoli. Le difficoltà, anche nel suo caso, spaziavano dall’irreperibilità di alcuni ingredienti come il Monterey Jack (sostituibile con fontina o emmenthal) o il queso fresco (rimpiazzato dalla feta greca, per noi italiani molto più comune), al mistero riguardante alcune attrezzature (la rimmed baking sheet che altro non era che una banalissima teglia da forno) o imperscrutabili metodi di cottura. Cos’era il broiler se non il grill del forno? In cosa si differenzia un uovo sunny side up da uno over easy? Quest’ultimo garbuglio viene dipanato da molte sequenze di film americani in cui vediamo personaggi che si apprestano a prepararsi la colazione e si chiedono l’un l’altro come preferiscono le uova. Perché l’uovo all’occhio può essere cucinato, diversamente da come avviene in Italia, in due modi: o come se volessimo far risplendere un piccolo sole (sunny side up), oppure raccogliendo con una paletta l’uovo una volta che il fondo si è rappreso e rigirandolo rapidamente per farlo cuocere anche dall’altro lato, sottosopra (over easy), come in un magico mondo d’ispirazione fantascientifica; in quest’ultimo caso, l’albume risulterà più sodo rispetto al semplice sunny side up, mentre il tuorlo rimarrà cremoso.
Ma la traduzione non è fatta di sole parole! Nel 2015 il famosissimo Chef Rubio ha inaugurato un lodevole progetto denominato “Cucina in tutti i sensi”, traducendo le immagini delle sue videoricette in audio per ipovedenti e nella lingua internazionale dei segni per non udenti: ecco ad esempio la ricetta della sua cacio e pepe.
Non solo parole, quindi, ma suoni (da brava triestina non ho potuto che apprezzare la ricetta della jota che, grazie a Maxino ed Elisa Bombacigno, diventa un canto quasi mistico, nella loro Buiol), e poi immagini, gesti e, perché no, fumetti. Che siano in versione pop art, come in Fumetti in cucina. 50 ricette dal mondo, o in uno stile più personale, come i libri di Lucy Knisley, che siano sotto forma di blog, come dalla Paella alla Brace, oppure di video, come accade per la fortunata serie di ricette della Signora Mariangiongiangela, tanto amate dai miei figli. E come giustamente ricorda la beneamata Signora di cui sopra, per la ricetta serve anche un insegnante d’inglese, a ricordare che cibo e linguaggio sono due aspetti fondamentali della nostra cultura.