Ho una memoria tremenda. Pessima, davvero. Normalmente ci scherzo su (del tipo: “sono fortunata, posso leggere un giallo più e più volte senza mai perdere la suspence…”) ma non la vivo sempre bene.

È frustrante: il mio cervello decide (di norma a mia insaputa) quali informazione conservare e quali no. I criteri di questa selezione possono essere di diverso tipo: può scartare fatti che non ritiene importanti (sulla base di valutazioni che non sempre condivido) o che considera negativi, traumatici. Se i cassetti della mia scrivania traboccano di cose inutili e ridondanti, l’organizzazione della mia memoria farebbe la felicità di Marie Kondo.

E fin qui pazienza. Certo, la vita può non essere facile se chi ti circonda ha la memoria di un elefante, ma con un po’ di impegno (a volte i ricordi sono ancora lì da qualche parte e basta cercarli, in altre parole “il cestino non è ancora stato svuotato”) e un po’ di comprensione da parte del prossimo si tira avanti.

Ci sono casi in cui la smemoratezza è quasi fisiologica: tra casa e lavoro siamo costretti ad avere decine di password alfanumeriche (più caratteri speciali) e non c’è niente di strano se di tanto in tanto rimaniamo paralizzati con il dito sospeso sul bancomat davanti alla cassiera del supermercato. Io sono anni che “mi hanno appena cambiato il codice…”.

C’è però uno scherzo della memoria che più di altri mi infastidisce: la disnomia. È un fenomeno subdolo, uno sgambetto che il cervello ci tende appena abbassiamo la guardia. Posso tenere un corso di 8 ore sulla comunicazione e parlare delle peculiarità fonetiche del thailandese, soffermarmi sulla storia della Russia o elencare le suddivisioni amministrative della Repubblica Popolare Cinese senza esitazioni o tentennamenti. Poi torno a casa e chiedo a mia figlia di “passarmi la…” oppure a mio figlio di “indossare il…” e niente. Puntini, puntini, puntini. I poveretti non ci fanno nemmeno più caso e, abituati ai quiz di mamma, riempiono gli spazi con il sostantivo che il buonsenso suggerisce.

Quando “perdiamo la parola” siamo vittime di un malfunzionamento della parte del cervello che usiamo di più: il lobo parietale. Le cause possono essere molteplici e alcune di natura patologica, ma se il fenomeno è saltuario la spiegazione più logica e immediata è, come sempre, l’affaticamento, l’onnipresente stress.

Anche il multitasking cui siamo spesso costretti può portare a fenomeni di questo genere: gli studiosi parlano di doorway effect. In altre parole, è la stessa cosa che succede quando passiamo da una stanza all’altra e, nel varcare la soglia, dimentichiamo cosa dovevamo fare. Un esempio: devo uscire e mi servono le chiavi. So di averle lasciate in camera da letto, così entro nella stanza e improvvisamente… boh, non ricordo perché. Me ne esco con un foulard, un paio di guanti e la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Quello che è successo, in termini psicologici, è che il piano (le chiavi) si è perso durante l’attuazione della strategia (vado in camera). Con ogni probabilità il piano fa parte di un piano più grande (mi preparo e prendo quello che serve per uscire), che a sua volta rientra in un piano ancora più grande (alle 9:00 devo essere al lavoro).

Ciascuno di questi livelli richiede attenzione e, in questa gerarchia complessa, le chiavi si perdono per le distrazioni che sopraggiungono distogliendomi dal piano principale (nel mio caso, ad esempio, può succedere che entrando nella stanza mi capiti di inciampare su un giocattolo, chiedermi chi l’ha lasciato a terra, raccoglierlo per poi rimetterlo a posto e pensare che così sto perdendo tempo, che dovrei essere già in ufficio, ecc.).

Con le parole può succedere lo stesso: i pensieri scalzano altri pensieri e le parole si perdono nel processo.

Che esista un legame indissolubile fra memoria e linguaggio è assodato. Di più, ogni esperienza della nostra vita è associata alla lingua parlata nel viverla. Nel caso delle persone bilingui, ad esempio, certi ricordi sono legati maggiormente a una lingua piuttosto che all’altra, anche se la persona che ha vissuto l’esperienza è la stessa. Questo fenomeno è legato ad aspetti emotivi e gli studiosi parlano di language-dependent memory. In altre parole, è come se i poliglotti potessero attingere a diversi “contenitori” di memoria: non me lo ricordo nella lingua A? Proviamo con la lingua B. Pare che funzioni.

Tornando al legame fra memoria e linguaggio, si sa che nei pazienti affetti da demenza o Alzheimer il linguaggio è una delle prime aree cognitive colpite dalla malattia. Ebbene, anche in questo caso conoscere un’altra lingua può rivelarsi una carta vincente. Un’équipe di ricercatori italiani ha infatti condotto uno studio su un campione di malati di Alzheimer allo stadio iniziale dimostrando che parlare quotidianamente due lingue nel corso della vita può aumentare la cosiddetta riserva cognitiva (ovvero la resilienza del cervello rispetto al danno cerebrale) e rallentare quindi il progresso della malattia. Passare da una lingua all’altra è una vera e propria ginnastica cerebrale e, come accade per il corpo, un cervello allenato vive più a lungo.

I vantaggi di un cervello bilingue – Mia Nacamulli per Ted-ed

Da linguista mi consolo. È vero che con me ogni tanto le parole giocano a nascondino, sparendo e lasciandosi trovare solo qualche minuto più tardi, quando ormai non servono più, ma forse è normale: si divertono con me come io faccio con loro, mescolandole e combinandole quando e come mi piace. Una piccola vendetta, insomma. O magari no. Mentre io – ignara – digito, coniugo e declino è in atto qualcosa di molto più serio: l’inizio di una rivolta, quella delle parole contro lo strapotere dei verbivendoli.

Heads will roll…

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