L’anno scorso ho regalato ai miei figli una Polaroid. Non è stato un regalo casuale… da piccola mi sembrava ci fosse qualcosa di magico nel catturare un momento e vederlo impresso sulla carta nel giro di pochi istanti. In quei quadrati dalla cornice bianca ritrovo ancor oggi mio padre giovane con in braccio me e uno sconosciuto gatto bianco, mia nonna con i capelli nerissimi sorridente sullo sfondo verde del suo giardino. Sono foto diverse dalle altre. Riesco a immaginarne lo scatto, la pellicola che esce dalla macchina, il gesto cauto e intramontabile della “sventolata”, in attesa che i rivelatori agiscano e l’immagine compaia come per miracolo sulla carta.
A decenni di distanza, vedo i miei figli (sì, anche loro, generazione ipertecnologica e digitale) assistere con la medesima trepidazione al prodigio della Polaroid. Non c’è macchina digitale che tenga, quelle immagini su carta (uniche, irripetibili e senza possibilità di ritocco, magari un po’ sfocate) sono ricordi indelebili, più reali di qualsiasi file ad alta risoluzione destinato quasi sempre a rimanere nella memoria del cellulare o della fotocamera, testimonianza virtuale di un istante che c’eravamo ripromessi di ricordare.
Una volta le foto erano certamente meno perfette, ma si conservavano comunque. Ingombravano scatole e cassetti e di tanto in tanto si ritiravano fuori, per fare ordine o per passare il tempo, in un amarcord commovente, sorprendente o esilarante. La mia “scatola dei ricordi” è piena zeppa di foto dei miei primi viaggi da sola, tutte mescolate, con paesaggi più o meno riconoscibili e decine di volti amici di cui spesso fatico a ricordare il nome. Avrei dovuto pensarci, scriverlo sul retro della foto insieme alla data, ma a quell’età la vita ha colori e contorni perfettamente definiti e dimenticare non sembra possibile.
Nelle foto che mi ritraggono sorrido, sempre, gli occhi prima ancora che la bocca. Se ripenso ai periodi di studio o lavoro all’estero ricordo tanti stati d’animo diversi. L’entusiasmo, sicuramente, la curiosità, a tratti la fatica. Sì, la fatica. Chiunque si sia mai ritrovato a comunicare a lungo in una lingua diversa dalla propria lo sa: a meno di non essere perfettamente bilingui, pensare ed esprimersi in un’altra lingua è faticoso. Anche se non si tratta di lavoro, anche se la “fatica” non è altro che una giornata trascorsa a chiacchierare con amici che non vedevamo da tempo. La sera a volte si cerca il silenzio, magari un libro in italiano.
In giapponese esiste persino un’espressione per definire questo stress: YOKO MESHI. Con il loro consueto genio creativo quando si tratta di lessico, i giapponesi hanno scelto una metafora alimentare. Letteralmente, meshi significa “riso bollito” e yoko sta per “orizzontale”. Il riso bollito è un riferimento alla lingua giapponese, che si scrive dall’alto verso il basso anziché orizzontalmente come la maggior parte delle altre lingue. Mangiare riso “all’occidentale” diventa così metafora per indicare lo sforzo di comunicare in una lingua che non ci appartiene, in cui fatichiamo a trovare le parole per dare voce ai nostri pensieri.
La questione riguarda tutti e non è solo un’impressione. La scienza stessa conferma: la fatica è reale. Ma non è tutto: secondo un recente studio pubblicato da Sayuri Hayakawa della Northwestern University e Boaz Keysar dell’Università di Chicago, parlare in un’altra lingua ostacolerebbe addirittura la produzione di “immagini mentali” da parte del cervello e quindi, in ultima analisi, la creatività.
Hayakawa e Keysar hanno condotto una serie di esperimenti su un campione di 359 soggetti, tutti di madrelingua inglese ma con conoscenza dello spagnolo.
A ciascuno è stato chiesto di simulare mentalmente 35 diverse esperienze sensoriali, immaginando di assaggiare, vedere o toccare qualcosa. Successivamente, i partecipanti dovevano indicare quanto vivida e intensa fosse stata per loro l’esperienza. Attenzione però… i partecipanti erano divisi in due gruppi: uno riceveva le istruzioni in inglese e l’altro in spagnolo. Ebbene, in sei delle otto categorie previste dall’esperimento, per chi aveva ricevuto le istruzioni in spagnolo le immagini mentali erano risultate meno “vivide” rispetto a quanto dichiarato da chi aveva pensato (e immaginato) nella propria lingua madre, ovvero l’inglese.
Per inciso, i due sensi in controtendenza erano gusto e olfatto. Questo, secondo i ricercatori, potrebbe essere spiegato con i sapori e i profumi particolarmente intensi associati al cibo di origine latina.
Il risultato dell’esperimento suggeriva che i partecipanti avessero inconsapevolmente attribuito una minore intensità alle immagini mentali elaborate in lingua straniera. Hayakawa e Keysar hanno quindi deciso di procedere a un secondo test. Stavolta i partecipanti coinvolti erano 307, divisi in due gruppi, tutti di madrelingua cinese (mandarino) e con buona conoscenza dell’inglese.
A ciascuno è stato chiesto di completare un test lessicale (in inglese per un gruppo, in cinese per l’altro) che richiedeva di “visualizzare” degli oggetti (per esempio indicare quale, fra “carota”, “penna” e “fungo”, fosse l’oggetto dalla forma più dissimile). Ebbene, alla fine dell’esperimento è emerso che quanti avevano completato il test in inglese avevano commesso più errori rispetto all’altro gruppo cui le parole erano state date in cinese.
I ricercatori non hanno chiarito del tutto perché la capacità di immaginare risulti ridotta quando si pensa e ci si esprime in lingua straniera, ma suggeriscono possa dipendere dal fatto che l’elaborazione di immagini mentali prende spunto dal vissuto, gran parte del quale è legato al contesto linguistico in cui siamo stati cresciuti. Secondo l’ipotesi degli studiosi, attingere a questo “database” di esperienze vissute è più complicato quando si pensa in una lingua straniera.
“Nel corso degli ultimi anni,” hanno concluso Hayakawa e Keysar, “abbiamo sempre più indizi a sostegno dell’ipotesi che la lingua in cui pensiamo e comunichiamo possa incidere sul nostro modo di ragionare e di agire, dalla risposta emotiva alle dinamiche decisionali. Con questo studio abbiamo contribuito a dimostrare che tali fenomeni potrebbero essere legati al fatto che quando pensiamo in una lingua straniera la realtà ci appare meno vivida rispetto a quanto non avvenga nella nostra madrelingua.”
Come un filtro, la lingua che parliamo definisce o sgrana i contorni della realtà, così come fa il tempo. Scopriamo così che nella scatola dei ricordi, insieme alle Polaroid, conserviamo senza saperlo i nomi delle cose, le sensazioni provate, e che i suoni della nostra lingua (le voci della nostra infanzia) determinano il nostro modo di vivere e immaginare il mondo che ci circonda.
Se per la maggior parte delle persone la creatività è ostacolata dalla lingua straniera, esistono alcuni per cui è vero il contrario. Gli esempi celebri sono numerosi, basti pensare al russo Nabokov, che ha scritto Lolita in inglese americano, alle opere in francese di Samuel Beckett, agli indiani Salman Rushdie e Arundhati Roy e alla nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, famosi per i loro romanzi in lingua inglese.
Perché questi autori hanno scelto la via più difficile, la scrittura in una lingua diversa dalla loro? La risposta ce la dà Antonio Tabucchi, grande scrittore e traduttore dal portoghese:
“Sono un alloglotta, il portoghese l’ho imparato da grande. Dopo l’ho assorbito in modo tale che è diventata la mia lingua, l’ho adottato. Quando sogni in un’altra lingua, quella lingua è tua. Non è più uno strumento di comunicazione razionale, ma appartiene all’inconscio.”