Parla come mangi! Quante volte viene voglia di dirlo, sentendo certi “esperti” divertirsi a confondere il prossimo con pseudo-tecnicismi inutili… Ha ragione Gianrico Carofiglio, autore de La manomissione delle parole, quando scrive: “l’oscurità non necessaria è cifra stilistica, negazione del linguaggio e della sua funzione comunicativa e, soprattutto, sottile, iniziatica, autoritaria forma di esercizio del potere”.

La semplificazione linguistica, quindi, (che, attenzione, non è sinonimo di banalizzazione), è una scelta non solo auspicabile ma doverosa, civile.

Fine della filippica. In realtà, al di là del modo di dire, gli scienziati sono sempre stati molto cauti a stabilire correlazioni fra biologia e linguaggio. In più di un’occasione, infatti, simili ipotesi hanno portato a rischiose derive di stampo etnocentrico. Del resto, l’alimentazione è un aspetto culturale di importanza fondamentale e lo scambio di invettive (e ricette) è parte della storia dell’uomo. Basti pensare agli epiteti a sfondo gastronomico-razziale, più che mai anacronistici nell’era della cucina fusion ma ancora saldamente ancorati al vocabolario. Qualche esempio? Il tedesco Spaghettifresser (assai poco carino) riferito agli italiani trova eco nel più blando mangiapatate, gli inglesi si prendono gioco dei frogeaters e i francesi a loro volta fanno il verso a les rosbifs. E potrei continuare.

Per la scienza, la varietà fonetica del linguaggio umano risale a circa 300.000 anni fa, quando la nostra specie fece la propria comparsa sulla Terra, e i cambiamenti linguistici vengono spiegati sulla base di mutamenti culturali e non biologici. A suggerire che le cose non stessero proprio così è stato per primo il linguista Charles Hockett nel 1985, ipotizzando che i fonemi utilizzati da certe popolazioni fossero conseguenza dell’alimentazione e della pratica dell’agricoltura. In particolare, secondo Hockett l’uso dei denti e delle mandibole da parte dei cacciatori-raccoglitori rendeva più difficile (e quindi di fatto escludeva) l’uso dei suoni “f” e “v” (le cosiddette labiodentali, prodotte quando il labbro inferiore tocca i denti dell’arcata superiore), che lo scienziato considerava un’innovazione piuttosto recente nella storia del linguaggio umano.

Uno studio recente condotto da un’équipe dell’Università di Zurigo guidata da Damien Blasi ha cercato di approfondire la questione ricorrendo a un nuovo approccio multidisciplinare (dalla paleoantropologia alle scienze del linguaggio, dalla glottologia alla biologia evolutiva). L’obiettivo? Capire se effettivamente il Neolitico (era che vide il passaggio dall’economia nomade delle comunità di cacciatori e raccoglitori a quella stanziale delle prime società di agricoltori e allevatori) sia coinciso o meno con un mutamento fonetico all’interno del linguaggio umano.

Secondo i risultati dello studio di Blasi & Co., proprio l’affermarsi dell’agricoltura e di nuove tecniche di lavorazione dei cibi (ad esempio la macinatura e la cottura) avrebbero fornito all’uomo cibi più morbidi e meno difficili da masticare, con il risultato di una minor usura dei denti e una diversa conformazione della mandibola. Nell’uomo post-neolitico, l’occlusione dentale “corretta” è caratterizzata da overjet e overbite (termini usati per descrivere la posizione degli incisivi superiori rispetto agli incisivi inferiori), ed è provato che produrre i suoni “f” e “v” con questo tipo di occlusione richiede uno sforzo muscolare inferiore del 30% rispetto ai casi oggi definiti di malocclusione. Questa differenza non si ha, per contro, con i suoni bilabiali, ad esempio (“m,” “p,” “b,” ecc…)

 

A ulteriore conferma dei risultati ottenuti dall’équipe di Zurigo, pare che nelle lingue delle moderne popolazioni di cacciatori-raccoglitori i suoni labiodentali siano meno di 1/3 rispetto a quelli che caratterizzano le lingue delle società agricole.

Quali sono queste popolazioni? Vale la pena di ricordarle. Dagli Inuit dell’Artico agli Ayoreo del Chaco, dai Boscimani del Botswana agli Awà del Brasile, nelle zone più selvagge e incontaminate del nostro incredibile pianeta esistono ancora popolazioni che per millenni hanno protetto il loro stile di vita e la loro cultura. Al giorno d’oggi sono minacciate dall’avanzare dell’urbanizzazione e rischiano di scomparire, insieme al loro prezioso patrimonio culturale e linguistico. Secondo i dati dell’Unesco, le lingue indigene scompaiono al ritmo di una ogni 14 giorni, insieme agli ultimi esponenti dei popoli che le parlano. Dal 2007 sono scomparsi oltre 100 idiomi nativi, e altri 400 sono a rischio. Le tribù vengono cacciate dalle loro terre da individui (criminali, aziende, e spesso gli stessi governi) senza scrupoli che mirano ad accaparrarsi terra, energia, oro e pietre preziose.

Accade talvolta che un singolo individuo sia l’unico depositario di una cultura, come Cristina Calderón, ultima purosangue yaghan (Terra del Fuoco). Quando Cristina, che adesso ha 91 anni, morirà, con lei scomparirà l’ultima persona al mondo a parlare la ricchissima lingua yamana.

La scomparsa di una cultura è tra le cose più tristi e tragiche che possano accadere. La morte di una persona non ne cancella l’esistenza, e in chi resta il ricordo continua a vivere. La morte di un popolo è l’estinzione della memoria.

Come ha scritto George Steiner: “quando una lingua muore, con lei muore un modo di comprendere il mondo, un modo di guardare il mondo”.

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