Sulla mia scrivania, da sotto il monitor del PC, mi fissa una paperella di gomma. Per gli appassionati di Douglas Adams, autore della geniale, visionaria, imperdibile (mi fermo ma continuerei) Guida Galattica per Autostoppisti l’associazione è immediata. Nel libro, il Comandante della Flotta delle Arche di Golgafrincham, Nave B, era un uomo mite e gentile, desideroso di compagnia: per questo viveva (da oltre tre anni) nella sua vasca da bagno insieme a quello che per gli altri era un banale giocattolo.

“Non si è mai veramente soli quando si ha una paperella di gomma,” sosteneva. Ecco, quindi. La paperella mi tiene compagnia mentre lavoro. Non solo! Capita anche che mi aiuti. Per chi non ne avesse mai sentito parlare, il rubber duck debugging è quel processo che consiste nel cercare la soluzione a un problema spiegandolo passo passo e con semplicità a qualcuno che non ne sa nulla, animato o meno (in The Pragmatic Programmer, libro in cui compare l’espressione, l’oggetto in questione era per l’appunto una papera di gomma). Questo costringe a osservare il problema da un altro punto di vista e spesso la chiave per trovare una soluzione sta proprio lì, in un cambio di prospettiva. Guardo la mia gommosa assistente e mi rendo conto che sto divagando. Di nuovo.
Il riferimento alla Guida Galattica per Autostoppisti nasce da una riflessione sul mio rapporto con la fantascienza. La verità è che oltre alla dipendenza da X-Files ai tempi dell’università e all’ammirazione sconfinata per quel genio di Douglas Adams io e la fantascienza siamo su pianeti (pun intended) diversi. Eppure ogni tanto vale la pena di fare qualche eccezione.
A Hollywood gli alieni non passano mai di moda, si sa, ma nel 2016 è uscito un film molto, molto particolare. Il film in questione si intitola Arrival. Come di consueto, la pellicola comincia con un’invasione di extraterrestri e Amy Adams – che nel film interpreta la famosa linguista (un ossimoro!) Louise Banks – viene incaricata di decifrare l’incomprensibile idioma alieno e capire quali siano le intenzioni dei visitatori. (Per inciso, dopo Nicole Kidman nei panni di un’interprete, Amy Adams esperta di linguistica rientra fra i rari attimi di celebrità cinematografica di una categoria mediamente poco glamour…) Ma torniamo alla storia. Nel corso delle sue ricerche Louise Banks fa una scoperta incredibile: capisce che gli alieni comunicano visivamente con frasi palindrome circolari generate tramite emissione di gas dalla pianta del piede. Nientemeno. Soprattutto, Banks intuisce che il loro diverso modo di concepire e parlare del tempo permette agli alieni di prevedere il futuro e, a mano a mano che ne impara la lingua, lei stessa comincia ad avere visioni di ciò che accadrà. È a questo punto che la studiosa chiama in causa addirittura il principio di Sapir-Whorf o della relatività linguistica (già citata in Parlo, dunque penso, dunque sono), secondo cui la lingua che utilizziamo è in grado di influenzare i nostri pensieri, “riprogrammando” (rewiring) la mente.
Come spesso accade, la fantasia (in questo caso la fanta-scienza) non è poi tanto lontana dalla realtà. Nel loro studio intitolato Two languages, two minds: Flexible cognitive processing driven by language, Panos Athanasopoulos ed Emanuel Bylund hanno infatti scoperto che chi parla più di una lingua tende a pensare al tempo in maniera diversa a seconda del contesto linguistico in cui stima, ad esempio, la durata di un evento. Il futuro no, purtroppo nemmeno chi è poliglotta lo può vedere, ma quella “riprogrammazione” del cervello cui si fa riferimento nel film avviene realmente. La ricerca è oltremodo interessante, perché fornisce la prima evidenza psico-fisica di una flessibilità cognitiva legata al bilinguismo.
Il tempo è un concetto estremamente astratto. Non lo vediamo e non lo tocchiamo, ma influenza il nostro modo di organizzare la giornata, quanto in anticipo pianifichiamo le nostre attività e quanto siamo flessibili. Proprio a causa di questa sua natura astratta, quando dobbiamo parlare del tempo lo facciamo prendendo in prestito parole da un altro ambito della nostra esperienza, molto più concreto: lo spazio. Per questo motivo, ad esempio, in svedese la parola per esprimere il concetto di “futuro” è framtid (letteralmente tempo anteriore). Anche in italiano tendiamo a considerare il futuro come davanti a noi, mentre il passato è ciò che ci lasciamo alle spalle.
Contrariamente però a quanto si potrebbe pensare, questo modo di concepire il tempo non è universale. Per chi parla aymara (un idioma andino che insieme a spagnolo e quechua è lingua ufficiale in Perù e Bolivia), infatti, guardare avanti significa… guardare al passato. In lingua aymara “futuro” è tradotto come qhipuru, che letteralmente vuol dire il tempo che sta dietro (qhipa significa “dietro”). Analogamente nayra significa davanti e la parola nayruru (il tempo che sta davanti) indica il passato. Il ragionamento alla base della concezione del tempo secondo la lingua aymara è questo: non possiamo vedere il futuro così come non possiamo vedere quello che sta dietro alle nostre spalle. Al contrario, conosciamo il passato e ce l’abbiamo davanti agli occhi, di fronte a noi. Questa concettualizzazione del futuro e del passato si estende anche alla gestualità: ad esempio, chi parla di un evento futuro indica dietro di sé, mentre chi parla del passato tende a portare le mani in avanti.
E non finisce qui: in chi parla cinese mandarino la concezione spaziale del tempo è di tipo verticale. Ad esempio, si usa la parola xià (giù) per parlare di eventi futuri (“la prossima settimana” si traduce letteralmente come xià zhōu, ovvero “la settimana giù”), mentre il passato sta “su”, ovvero shàng (la settimana scorsa diventa quindi shàng gè xīngqí, ossia “la settimana su”).
Anche la durata degli eventi viene descritta in modo diverso a seconda delle lingue: nelle lingue anglosassoni il passare del tempo viene espresso in termini di distanza fisica (a short break, a long time ago…), mentre nelle lingue romanze il tempo tende a essere visto come una quantità o un volume (è passato molto tempo, una pequeña pausa, ça fait beaucoup de temps).
Chi è abituato a passare da una lingua all’altra non usa semplicemente parole diverse ma nel farlo altera anche la propria percezione del tempo, dando prova di flessibilità cognitiva oltre che linguistica. Il linguaggio, affermano gli studiosi, è in grado di penetrare nel nostro modo di vivere e interpretare la realtà influenzando le nostre percezioni sensoriali e visive, le nostre emozioni. Chi parla quotidianamente lingue diverse allena il proprio cervello alla flessibilità di pensiero, all’apprendimento e al multitasking, con benefici a lungo termine per la propria salute mentale.
Insomma, alieni a parte, la sostanza è che non è mai troppo tardi per imparare un’altra lingua.
Magari non ci permetterà di vedere il futuro… ma scopriremo un modo diverso di vedere il presente!