La scorsa domenica, insieme alla famiglia e a dei cari amici, abbiamo approfittato della bella giornata di fine estate per organizzare una gita al paesino di Stolvizza nell’alta Val Resia. Abbiamo imboccato subito un percorso naturalistico molto ben tracciato, denominato “Ta Lipa Pot”, che dal centro del paese ci ha portati presto al rasserenante scroscio di una cascata per poi attraversare zone boschive, prati soleggiati, attraversare la statale e risalire dal versante opposto per poi fermarci sul greto del torrente Resia a mangiare e immergere i piedi nelle sue gelide, limpide acque.

Una volta ripreso il cammino, dopo un’ultima salita tra noccioli e cornioli e un breve percorso pianeggiante tra l’erba alta e le pannocchie, siamo arrivati al Museo dell’Arrotino, dove la premurosa guida ci ha illustrato la storia, la vita e le usanze degli abitanti della Val Resia, noti fin dal lontano passato per il mestiere, appunto, di arrotino, che veniva svolto in tutta Europa, in particolare a Praga ma successivamente anche tra Umbria e Marche e via via sempre più lontano, fino addirittura alle isole Fær Øer e al Libano.

Tra racconti incentrati precipuamente sul mestiere dell’ambulante e dell’arrotino, la guida ci ha presentato un paio di strumenti tipici della zona, usati tuttora: un tipo particolare di violino col ponticello più alto rispetto al violino classico, e una specie di contrabbasso a tre corde.

Giunti a questo punto, la guida aveva già catturato l’attenzione di tutti. Ma è stato quando ha accennato alle peculiarità linguistiche che caratterizzano la Val Resia, che mi ha definitivamente conquistata. Ci ha raccontato che nella valle vengono parlate correntemente quattro versioni del resiano, che differiscono tra loro sia per la pronuncia che per molti vocaboli utilizzati. Che sia lingua o dialetto è argomento tuttora dibattuto tra i filologi; quel che è certo è che si tratta di un linguaggio cosiddetto “protoslavico”, a tratti somigliante allo sloveno arcaico, a tratti più simile al russo: resiano e russo, infatti, risultano essere tra loro intercomprensibili, al punto che, nel corso dell’occupazione cosacca della Carnia avvenuta durante la seconda guerra mondiale, i resiani riuscivano facilmente a capire e farsi capire dai cosacchi che, appunto, parlavano il russo come seconda lingua.

La somiglianza con lo sloveno (per noi triestini che, pur non conoscendolo approfonditamente, siamo in grado di riconoscerne struttura e vocaboli più frequenti) è già intuibile dal nome del sentiero che ci ha guidati lungo gli ombreggiati versanti del torrente: “Ta Lipa Pot”, in resiano, significa “la bella strada”, e la parola “lipa” riecheggia il noto “lepa” che in sloveno significa, appunto, “bella”.

Guai, però, a dire a un Resiano che è uno Sloveno: la popolazione locale, pur ammettendo un’origine linguistica di stampo slaveggiante, non si identifica in tutto e per tutto come una minoranza slovena (com’è attualmente considerata dal punto di vista della legislazione) ma lotta con costanza per ottenere un riconoscimento della propria identità come unica e individuale. Nel sito http://www.resianet.org/site/resiano/, infatti, leggiamo quanto segue:

“Se per il suo parlare e per la sua tradizione popolare Resia appartiene chiaramente all’area slovena gli sviluppi storici e sociali dal Rinascimento in poi hanno creato una situazione in cui i resiani stentano a identificarsi con la cultura slovena, anzi, si vedono come una popolazione ben diversa con una propria lingua e cultura.”

Per mantenere tale individualità e originalità, sono attivi circoli culturali che puntano, in particolare, a salvaguardare e valorizzare il patrimonio linguistico locale tramite attività didattiche nelle scuole, corsi di resiano per adulti, concorsi dialettali per bambini, fiere, feste, convegni culturali. Programmi in dialetto resiano vengono curati dalla stazione radio della RAI in lingua slovena Radio Trst A di Trieste: ogni sabato alle ore 12.00 va in onda la trasmissione “Te rozajanski glas”, mentre ogni domenica alle ore 15.00 su Radio Spazio 103 va in onda la trasmissione “Okno v Benečijo” nell’ambito della quale vi è uno spazio anche per il resiano.

Alla fine degli anni Settanta a Prato di Resia si svolse un congresso internazionale, organizzato dalla Columbia University di New York in occasione del 50° anniversario della morte di Jan Baudouin de Courtenay, linguista polacco che, tra fine Ottocento e inizio Novecento, studiò approfonditamente il resiano e altri dialetti slavi del Torre. Il seminario riunì i maggiori slavisti mondiali che cercarono di risolvere le problematiche dell’ortografia della parlata resiana, sino ad allora priva di una sua forma ortografica e di un alfabeto comune. Come si legge sul sito valresia.it, “al termine della tre giorni non solo non erano state stabilite le linee guida per una grafia comune, ma era stata creata ulteriore confusione”.

Il problema maggiore consiste tuttora nell’uso della lettera “c” per riprodurre il suono “z” (come accade nello sloveno). La maggior parte dei resiani, infatti, non condivide l’utilizzo di quella lettera e lo prova la presenza di numerose correzioni manuali apportate ai cartelli toponomastici bilingui. Il resiano Sergio Chinese, non linguista ma profondo conoscitore delle quattro varianti locali, ha infine elaborato un alfabeto che da quel momento è diventato l’ortografia ufficiale. Questo alfabeto ha finalmente permesso al coro Monte Canin di pubblicare, nel 1991, la raccolta di spartiti dei canti resiani “Lipe rožize” che, grazie a quell’opuscolo (“Rośajanskë-laškë bysidnjäk”, ovvero Repertorio lessicale resiano-italiano e viceversa), hanno iniziato ad essere inseriti nel repertorio di molte realtà corali.

Tornando, poi, alle quattro varianti del resiano, il linguista Han Steenwijk, docente presso l’Università di Padova, nel suo studio “Sangiorgini, Resiani e Sloveni”, disponibile in parte all’indirizzo http://147.162.119.1:8081/resianica/ita/resslov.do, riporta alcuni esempi di parole diverse nei quattro dialetti tradizionali: quello di San Giorgio, quello di Gniva, quello di Oseacco e quello di Stolvizza.

Se prendiamo, ad esempio, la parola “polenta”, le quattro versioni sono le seguenti:

San Giorgio Gniva Oseacco Stolvizza
jëst jëst/polenta id jid

Il vocabolo jëst è di origine slava; l’antenato comune alle quattro parole è lo slavo *ědĭ, che significa “cibo, mangiare”, da cui poi lo sloveno jed = “cibo, piatto”.

Le patate, invece, vengono così chiamate:

San Giorgio Gniva Oseacco Stolvizza
kartüfule karćüfule/krampir krampir krampir

Il sangiorgino kartüfule e lo gnivese karćüfule derivano dal friulano cartùfule, a sua volta preso dal tedesco Kartoffel. Questa voce la si ritrova nell’italiano tartufolo, variante toscana di tartufo, presente anche in vari altri dialetti per indicare il topinambour, comunque un tubero. In sloveno, invece, si usa la parola krompir, da cui le versioni oseacchese e stolvizzana.

Ultima curiosità che ho trovato, infine, sull’argomento, è un album intitolato Cvik Cvak!, dedicato alla Val di Resia dalla famosa band slovena Katalena, che ripropone in chiave moderna antichi ritmi e sonorità di quel piccolo mondo. In questo album vengono presentati brani musicali che ripropongono antiche filastrocche e canti resiani in versione attuale.

Le sonorità del resiano rivisitate in chiave moderna

Quando abbiamo parcheggiato le macchine nel posteggio all’ingresso del paese di Stolvizza, una coppia di cortesissimi signori ci ha fornito delle mappe dei sentieri praticabili nella zona, ricordandoci che, dopo esserci arricchiti fisicamente con la camminata, avremmo potuto arricchirci culturalmente visitando il Museo dell’Arrotino. Non posso far altro che ringraziarli per questo saggio consiglio che è riuscito a stimolare la mia insana curiosità da linguista. Di rimando, non posso far altro che invitare ciascuno di voi a visitare questo tranquillo e al tempo stesso vivace angolo di paradiso!

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