Qualche mese fa abbiamo inaugurato su Facebook una rubrica intitolata “Il Galateonte”: una rassegna di pillole di comunicazione interculturale da chi, dell’incontro fra lingue e culture diverse, ha fatto il proprio mestiere oltre che la propria passione.

L’obiettivo era quello di condividere piccole consuetudini e regole di buona educazione da conoscere se si desidera convivere e comunicare bene con chi viene da lontano.

Perché, ci siamo detti, siamo tutti curiosi… no?

A tutti piace girare il mondo, incontrare il diverso, avvicinarsi con rispetto e discrezione a mondi lontani, che oggi sono alla portata di tutti ma che fino a un secolo fa potevamo conoscere solo attraverso i racconti dei pochi cui era concesso di inseguire l’avventura, no?

Ebbene, la risposta non è, necessariamente, sì.

Il diverso non sempre incuriosisce, anzi. Più spesso incute timore e diffidenza.

Lo vediamo dai commenti al Galateonte, che volutamente non abbiamo rimosso.

Scriviamo che in Cina è maleducato indicare con il dito e c’è chi ci ricorda che qui siamo in Italia, chi si lamenta perché oramai giusto i prodotti cinesi, possiamo permetterci.

Facciamo presente che in Thailandia la forchetta non si porta alla bocca ma serve solo a sospingere il cibo verso il cucchiaio e più d’uno risponde “e chi se ne importa? sto a casa mia, ci sono ben altri problemi da risolvere”.

In India la mano sinistra è considerata impura? “Io sono mancina, o mi accettano così come sono o in India non ci vado”.

Che in Giappone gli oggetti non vadano regalati in multipli di 4 non crea grande scompiglio. I giapponesi sono meglio tollerati (non aprono attività in Italia, non emigrano qui. Al massimo vengono come turisti e questo va bene).

Ma i commenti peggiori piovono quando si ricorda che nei paesi arabi è considerato irrispettoso accavallare le gambe e mostrare le suole delle scarpe.

“Loro” che vengono qui e non rispettano noi o il nostro paese o le donne in generale, che non si lavano e sono indietro di millenni.

Un nervo scoperto, tanto che un banalissimo post basta a risvegliare insofferenza e pregiudizi.

Diversità, cultura araba, Islam e fondamentalismo rimestati tutti insieme in un calderone da cui si alzano i miasmi della xenofobia, dello stereotipo.

La Treccani, istituzione nostrana che per i non nativi digitali rimane summa di autorità e definitiva certezza, definisce lo stereotipo così:

“opinione precostituita su persone o gruppi, che prescinde dalla valutazione del singolo caso ed è frutto di un antecedente processo d’ipergeneralizzazione e ipersemplificazione, ovvero risultato di una falsa operazione deduttiva”.

In particolare, prosegue la Treccani, la funzione dello stereotipo sociale è triplice:

risparmio di energia psichica, funzione d’integrazione dell’individuo nel gruppo, funzione egodifensiva”.

In altre parole, si ricorre (per lo più inconsapevolmente) al pregiudizio per difendersi, perché andare oltre è difficile e spesso non se ne hanno gli strumenti. Perché, in sostanza, viviamo in un mondo complicato.

Viene da pensare che Il Galateonte, con le sue “spigolature di comunicazione interculturale”, non sia stata in fondo una gran trovata.

Noi ci occupiamo di traduzioni e comunicazione, non facciamo politica, non ne siamo nemmeno capaci.

A fronte di tanti commenti velenosi, la prima reazione è stata “lasciamo perdere, passiamo ad altro”.

Poi ci abbiamo riflettuto. In questi mesi il mondo è passato dalla pandemia alla guerra. Nel primo caso come nel secondo il pericolo viene da lontano.

E sempre, sullo sfondo, lo spettro di un estremismo islamico che non è mai morto, al massimo sopito, o in vigile e minacciosa attesa.

Che senso ha, in questo preciso momento storico, associare il nome del proprio brand alla scoperta dell’altro, alla curiosità per il diverso?

Che marketing controproducente è questo, se tutti cercano il conforto di ciò che è famigliare, noto e per questo rassicurante?

Il fatto è che talvolta un’iniziativa di marketing può diventare altro, di più. E se si trova un nervo scoperto questo non va ignorato ma curato.

Non c’è rimedio al pregiudizio e all’intolleranza che non passi per la conoscenza.

Guardare verso l’altro per capirlo e non averne paura, per riconoscervi il proprio riflesso (di padre, madre, figlio).

Per questo non solo il Galateonte non finirà, ma sarà accompagnato da piccoli approfondimenti che cercheranno di spiegare il perché delle differenze tra la nostra e le altre culture, senza limitarsi a descriverle. Perché “risparmiare energia psichica”, quando si parla di relazioni fra le persone, è un concetto di una tristezza infinta.

Il Galateonte, nato come una rubrica leggera sul tema dell’interculturalità, diventa così minuscolo contributo alla creazione di un mondo libero dagli stereotipi e dai pregiudizi.

Imagine, cantava qualcuno. Imagine, indeed.

 

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