In questi giorni di reclusione e di isolamento c’è tempo per le riflessioni.
Incredibile quanto in fretta ci si abitui all’inimmaginabile, come sia breve il passo dall’inaccettabile all’inevitabile.
Come quasi tutti, chi scrive si dibatte in un vortice di frustrazione e insofferenza, alternando apatia e iperattività. Grazie al cielo ci sono libri da leggere e pensili da riordinare. Entrambi infiniti, sufficienti almeno per un paio di pandemie. L’essenziale è arrivare a sera, mettere un’altra croce sul conto alla rovescia che – ci conforta pensare – stando alle ultime dovrebbe concludersi il 3 di aprile.
Davvero sono passate solo poche settimane? La quotidianità sembra stravolta in un modo che si fatica a immaginare reversibile. L’universo si è improvvisamente ristretto, i muri di casa sono i nuovi confini da cui non possiamo e non vogliamo uscire. E in casa? Il salotto ricorda ormai una succursale della NASA, con dispositivi perennemente in carica o in funzione, sincronizzati e connessi. Per lavorare, studiare, divertirsi, comunicare. Persino per fare sport. Per vivere, insomma.
Ma è vita per modo di dire, più che altro uno stand-by esistenziale che paralizza e deprime. Manca solo (!) tutto quello che rende la vita degna di essere vissuta: mancano, in breve, la dimensione sociale e la libertà. Esserne privati ci snatura ed è tollerabile solo in una prospettiva a breve (brevissimo) termine.
Soffriamo, in queste settimane. Scopriamo cosa significa vedersi tolta la libertà di movimento, un diritto inalienabile dell’individuo tanto da essere sancito (perché come tutti i diritti fondamentali dovrebbe essere scontato ma non si sa mai) dall’articolo 16 della Costituzione.
“Ogni cittadino – cito– può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza.” Questo è capitato. Nelle ultime settimane la nostra salute e sicurezza non sono compatibili con l’esercizio di un diritto fondamentale. Ci ricorderemo di non darlo più per scontato.
La seconda privazione è ugualmente difficile da accettare. A eccezione di coloro che con noi dividono l’abitazione, dobbiamo tenere il resto del mondo a debita distanza. Un metro, dicono gli esperti, questa è la distanza di sicurezza anti-droplets, quelle goccioline su cui viaggia il tanto temuto virus.
Ma quant’è un metro nella distanza fra le persone? È tanto? Poco? Beh, dipende. Esiste una disciplina che si occupa proprio di questo, ovvero di analizzare e codificare l’uso che gli individui fanno dello spazio sociale e personale. Si tratta della prossemica, secondo un termine creato dall’antropologo americano E.T. Hall che per primo ha indagato scientificamente questi aspetti della comunicazione. Sì, perché anche lo spazio che decidiamo di mettere fra noi e il nostro interlocutore è parte della cosiddetta CNV (comunicazione non verbale) e parla di noi e della nostra relazione con l’altro.
Secondo Hall, la distanza interpersonale varia a seconda della relazione fra i soggetti (individua a tale proposito quattro diversi tipi di distanze: intima, personale, sociale e pubblica) ma può essere legata anche a fattori culturali, caratteriali, contingenti. In altre parole, ciascuno ha bisogno di un determinato spazio intorno a sé, la cosiddetta “bolla prossemica” che, se invasa, si traduce in una sensazione oggettiva di disagio. Per capire quanto tale bisogno sia radicato e reale basta guardare questo video realizzato nel 2011 dalla compagnia aerea KLM per presentare la nuova Europe Business Class.
Una candid camera eloquente, che non lascia dubbi sulla reazione istintiva delle persone all’invasione del proprio spazio personale. Per questo lo “spazio in più” è il lusso che KLM ha scelto di offrire a chi decide di viaggiare in business class.
Nei paesi mediterranei, non è un mistero, la distanza fra le persone è più ravvicinata rispetto a quella considerata socialmente accettabile nei paesi anglosassoni o scandinavi… o in Giappone!
Le eccezioni esistono, certo, ma la generalizzazione è possibile e reale. La mia amica Irmeli, in quarantena nel gelo del suo fiordo dopo il rientro dalla Spagna, mi ha fatto sorridere con un meme che allego. Covid o non Covid, a certe latitudini la distanza sociale non cambia poi molto!
Qui no, le cose non stanno certo così. Nel nostro paese il linguaggio del corpo ha un ruolo essenziale nel processo comunicativo, che passa attraverso il contatto fisico, la gestualità, la mimica. Essere privati di questa dimensione essenziale è alienante e toglie tridimensionalità alle parole.
Non sarà facile archiviare questo periodo, anche quando sarà ufficialmente superato. L’emergenza ha innescato comportamenti sociali inediti e grotteschi come ad esempio il quarantine shaming, il nuovo sport nazionale che consiste nel denunciare pubblicamente (quale megafono migliore dei social?) chi non si attiene alle regole di isolamento imposte dalle autorità. Sorrideremo – forse – un giorno, ripensando alle ridicole crociate contro i runner o alle discussioni su dove, come e quanto spesso sia realmente necessario far fare pipì a Fido. O forse sarà meglio non pensarci più, come succede con gli episodi imbarazzanti della nostra vita che preferiamo rimuovere. Ci sono altre cose che meritano di essere ricordate, come le tante testimonianze di solidarietà, l’impegno di chi lavora per il bene di tutti, il desiderio di ritrovare gli affetti.
“Torneremo ad abbracciarci” è uno dei messaggi di speranza più diffusi in questi giorni di isolamento. Un’espressione di italianità sincera, che racconta il nostro modo di esistere in relazione all’altro. Non più, si spera, “rigidi e frigidi”, come ha scritto qualcuno e come indubbiamente la paura ci ha resi in queste settimane, ma vicini, più consapevoli dell’importanza che l’altro, gli altri, hanno per noi.