Quando uno fa il mio mestiere, le parole – che per i più sono un semplice mezzo di espressione – diventano uno strumento di lavoro, come le forbici per il parrucchiere o il coltello per un cuoco. Da lucidare, affilare e usare con cura (facendo attenzione perché sì, anche loro tagliano). Ma come un meccanico può emozionarsi davanti a un set di chiavi inglesi luccicanti, anche a chi lavora con le parole capita di dimenticarne per un momento il significato e di rigirare le sillabe fra le dita sovrappensiero, lasciandosi catturare dai suoni e dal segno grafico.
Non c’è dubbio che esistano parole più belle di altre. Prendiamo il sostantivo “libellula”, per esempio… o il verbo “sussurrare”. Nel primo caso un girotondo di laterali alveolari intorno a un’occlusiva bilabiale, nel secondo una marcetta di fricative e vibranti alveolari. Da ripetere sottovoce a piacimento, singolarmente o in sequenza come i versi allitterati di una poesia.
È quando ci si astrae dal significato che il suono delle parole ci appare all’improvviso, come l’immagine nascosta in uno stereogramma, o quelle foto scattate con il microscopio a fluorescenza dalle forme e dai colori meravigliosi, poco importa se in realtà stiamo guardando l’ingrandimento di un pelo sulla zampa di una tarantola o l’occhio di un moscerino.

C’è poi la bellezza della parola scritta. È difficile “guardare” la propria grafia senza leggerla, giudicandola da un punto di vista puramente estetico. Un metodo possibile è osservarla riflessa allo specchio. Viste al contrario le parole diventano illeggibili, perdono il loro significato e si trasformano in segni, belli e brutti. Cambia l’inclinazione, certo, ma l’armonia del tratto (se c’è) rimane. Ci sono poi lettere (segni) più o meno aggraziate, come sa bene chi si dedica alla calligrafia (vocabolo che per inciso deriva dal greco καλòς – calòs “bello” e γραφία – graphìa “scrittura”).
Proprio la calligrafia rientra fra i miei passatempi. A essere onesta dire che faccio calligrafia non è del tutto corretto. Diciamo piuttosto che periodicamente dedico parte del mio tempo a una sperimentazione feticistica, segretamente (da adesso non più…) convinta che solo la perfetta combinazione di pennino/carta/inchiostro mi regalerà la cancelleresca dei miei sogni o un italico da manuale. (Per inciso, non funziona. Servono pazienza ed esercizio. Altro che pennini in palladio… in Turchia c’è un tizio che sa fare cose incredibili con una forchetta!)
Insomma, “A, a, B, b, C, c…” lettere minuscole e maiuscole ripetute all’infinito per addomesticare il tratto mettendo d’accordo inchiostro e pennino. Ma le lettere non sono tutte uguali, e ciascuno ha i suoi gusti in proposito. Per quanto mi riguarda, ad esempio, la mia lettera preferita è la “f”, con il suo avvicendarsi equilibrato di spigoli e svolazzi, che mi ripaga delle frustrazioni di quelle “o” sempre un po’ troppo ovali o troppo tonde.
Dall’udito alla vista, insomma, le parole come esperienza sensoriale.
A volte mi chiedo come sarebbe rientrare fra coloro che soffrono (o godono?) di quell’incredibile condizione nota come sinestesia (dal greco sin-aisthánestai: “percepire assieme”), ovvero la capacità di percepire uno stimolo in una o più modalità sensoriali.
L’incidenza dei sinesteti sul totale della popolazione è un dato incerto. Le ipotesi vanno da 1 a 10 individui ogni 2000, anche se pare che nelle donne i casi siano più numerosi (rapporto 6:1).
Da un punto di vista anatomico, la sinestesia è principalmente associata a due fenomeni a livello cerebrale: iperconnettività e cross-attivazione. In un cervello sinestetico le connessioni sono molto più attive e sviluppate rispetto allo standard e nelle aree coinvolte dai processi sinestesici (aree sensoriali, lobo parietale e lobo frontale) si ha un maggiore spessore e una concentrazione più elevata di materia grigia.
Esistono diversi tipi di sinestesia (a seconda dei sensi coinvolti) e per la scienza questa condizione rimane ad oggi un mistero. Secondo le teorie più recenti, la chiave sarebbe un ponte immaginario che mette in comunicazione l’area preposta al linguaggio e quella in cui sono elaborate forme e colori.
Mentre la scienza si interroga, a noi glottofili rimane il piacere di immaginare quali esperienze si nascondano dietro alla misteriosa contaminazione dei sensi… Poter gustare parole… che cosa incredibile! E il dubbio rimane: in una percezione sinestetica la splendida (e armoniosa) peonia è più o meno profumata del più (concettualmente e foneticamente) prosaico formaggio? Possiamo solo fare congetture.
Concludo con le parole di chi, poeta, la sinestesia l’ha saputa raccontare meglio di chiunque altro.
Ci sono profumi freschi come carni infantili,
dolci come oboi, verdi come praterie
– e altri corrotti, ricchi e trionfanti,
che hanno l’espansione delle cose infinite,
come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso
che cantano gli abbandoni dello spirito e dei sensi.
da “Corrispondenze”, di Charles Baudelaire.
(Traduzione della poetessa Luciana Frezza, Rizzoli, 1980).